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Brigantaggio in Terra di Lavoro: intervista alla scrittrice Prof. Vittoria Longo

DiThomas Scalera

Lug 3, 2015

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Il periodo risorgimentale è un periodo molto complesso. Per anni sui testi scolastici si è parlato dei briganti come criminali ma negli ultimi anni si sta assistendo ad una rivalutazione di queste figure. Basta citare le ballate scritte da Eugenio Bennato che hanno reso romantiche le gesta brigantesche. Ma chi erano davvero i briganti? Per alcuni i briganti furono partigiani che lottarono a favore della dinastia dei Borbone. In realtà il tema è più complesso. Nel Sud Italia post-unitario scoppiò una vera e propria rivolta contadina che fu repressa nel sangue. Terra di Lavoro fu terra di briganti. Michelina De Cesare (in foto) ad esempio è considerata una delle più grandi brigantesse del Sud ed era originaria di Mignano (per la precisione di Caspoli). Si può citare anche Fuoco, brigante originario di San Pietro Infine. Abbiamo parlato di brigantaggio in Terra di Lavoro con la Prof. Vittoria Longo, libera ricercatrice del periodo risorgimentale e coautrice di “Stragi ed eccidi dei Savoia durante il risorgimento”, oltre che autrice di “Come un chicco di grano”.

Vittoria cosa sai dirci del brigantaggio  in Terra di Lavoro?

Tutta la Terra di Lavoro fu interessata al fenomeno del brigantaggio: ad originarlo fu certamente il profondo disagio sociale della popolazione, stremata dalla fame, e il suo sincero attaccamento alla causa dei Borboni. Ma vi concorse anche un altro elemento che viene poco valutato dalla storiografia anche recente: la contiguità della Terra di Lavoro con lo Stato Pontificio e la conformazione del territorio che, se da un lato consentiva di colpire in pianura e fuggire subito nei monti vicini, dall’altro lato per la sua facilità di collegamento con regioni limitrofe consentiva le incursioni di formazioni reazionarie e brigantesche dalle regioni confinanti. La vicina dorsale appenninica, dal punto di vista strategico, era fondamentale ai fini del controllo del territorio. Se le forze borboniche, appoggiate dalle formazioni dei due versanti operanti in pianura, fossero riuscite a controllare quelle montagne avrebbero potuto dividere lo stivale in due, rinchiudendo l’intero Sud in una sacca essenziale per riorganizzare le forze, contrastare il nemico e ricacciarlo oltre i vecchi confine. Si pensi dunque alla importanza strategica della formazione legittimista (oltre 300 effettivi) dei fratelli La Gala che occupava i monti Alburni. La contiguità con lo Stato della Chiesa consentiva alle bande che quella linea operavano di compiere incursioni nei territori occupati dai piemontesi e poi agevolmente riparare nello Stato Pontificio. Si assistette così ad una sorta di emigrazione stagionale, con le bande che agivano nei territori delle Due Sicilie in estate e riparavano nello Stato Pontificio nell’inverno; analogamente il governo borbonico reclutava uomini e truppe a Roma e Civitavecchia e, con il tacito assenso del Vaticano e, in parte anche con quello delle truppe francesi di stanza nel Pontificio li inviava per la stessa via in Terra di Lavoro. Numerosissime furono quindi le bande di briganti che vi operarono, suddividendo il territorio in zone d’influenza, collegandosi fra di loro al bisogno e frazionandosi poco dopo per rendere ancora più difficile la caccia. Solo per citarne alcune ricordo, il già citato Cosimo Giordano ( che operava a Cerreto, Cerbano, Pietraroia, Gioia, Faicchio, Piemonte e in tutto il Matese; Vincenzo Arcieri (San Potito, Cusano, Alife Piedimonte; Antonio Sartore (Piedimonte, Baia e Latina). Il più conosciuto Domenico Fuoco agiva d’inverno sulle Mainarde per spostarsi poi in primavera lungo i costoni del Matese. Con lui operavano le bande di Ciccone, Pace e Guerra. Costui è particolarmente conosciuto agli studiosi del brigantaggio per essere il marito della brigantessa Michelina Di Cesare (nativa di Mignano), la cui foto da morta abbandonata a seni nudi sul selciato della piazza del suo paese natale, Mignano, è oggi l’icona del brigantaggio al femminile. E l’Alta Terra di Lavoro ha dato più di ogni altra regione il contributo più alto proprio al brigantaggio al femminile: una lunga lista di donne che abbandonarono il focolare per seguire i loro uomini in armi. Ricordo, fra le tante Maria Capitanio (San Vittore), Carolina Casale (nativa di Cervinara ma che seguì il suo uomo, Michele Lippiello di Roccamonfina, aggregandosi alle bande di Ciccone e Pace), Maddalena Cioffi (di Cervinara, al seguito di Alessandro Pace di Caspoli), Maddalena De Lellis (la Padovella, di San Gregorio Matese); Brigida e Giocondina Marino (di Cervinara, al seguito della banda di Giacomo Ciccone).

Che interpretazioni dai di questo fenomeno?

La storiografia ufficiale, accademica e non, almeno fino a qualche tempo addietro, ha ingabbiato il brigantaggio in un’ottica ristretta e ingiusta di esclusivo fenomeno criminale. Tale impostazione è figlia di una scelta ideologica che mira a negare valenza politica ad ogni forma di dissenso politico e di disagio sociale. Se ciò fosse esatto si dovrebbe concludere che il tutto il Sud è stato sempre terra di criminali, dal momento che il brigantaggio esplose in tutto il Meridione e coinvolse interi paesi e gran parte della popolazione. Insorsero infatti in massa, a migliaia. La verità, a mio parere è un’altra. Sinteticamente: intanto bisogna ribadire che il brigantaggio è un fenomeno da sempre presente nella storia del mondo e non solo in quel periodo. E’ un fenomeno che interessa non solo il nostro Sud ma tutti i sud del mondo e si manifesta laddove più forti sono le tensioni sociali, laddove lo strapotere dei “ricchi” esercita maggiormente violenza sulle classi subalterne. Detto questo, che da solo, contrasta la lettura criminale del fenomeno, vediamo di cogliere le sfumature di quello di cui ci stiamo occupando. Le classi rurali del Sud hanno sempre avuto un solo grande obiettivo: il possesso e il libero utilizzo della loro unica ragione di sopravvivenza. La terra. Rispondono così, attraverso l’unica arma in loro possesso, la violenza, a chi si ostina a negare questo diritto. E la prima metà dell’ottocento è un periodo in cui le vecchie classi padronali vengono sostituite da una nuova borghesia agraria, ancor più famelica dei predecessori: le condizioni di vita dei contadini sono quindi sempre più misere. Al Sud, inizialmente, si guarda a Garibaldi come a colui che finalmente darà corpo a questa secolare aspirazione. E lui promette la terra ai contadini. Perciò viene, sulle prime osannato. Ma la realtà si rivela ben presto assai diversa. Come grande era stata l’illusione, altrettanto grande diventa la delusione. E questa si trasforma in rabbia, in odio. Da qui le reazioni (si pensi al brigantaggio in Sila, ad esempio, che nasce come aspirazione di quelle terre boschive). Ed è, chiamiamola così, la prima sfumatura. Su questo elemento si innestano altre motivazioni che, miscelate in un periodo di rivolgimenti istituzionali, fanno esplodere i fuochi incontrollabili della rivolta. Una di tali motivazioni è sicuramente la fedeltà al legittimo monarca, proditoriamente spodestato del trono: molte delle reazioni sono pertanto guidate da uomini che sventolano la bandiera gigliata dei Borbone. Siamo quindi alla seconda, rilevante sfumatura. Ci sono poi migliaia di soldati del disciolto esercito che, di colpo, vedono sfumare quel minimo tozzo di pane che poteva sfamarsi, ricacciati come sono in una indigenza penosa. Hanno giurato fedeltà al loro re e non se la sentono di tradire quel giuramento: si danno alla macchia, cercando nella lotta un senso alla loro esistenza. Ecco la terza sfumatura. C’è anche, bisogna ammetterlo, una componente criminale: sono uomini che avendo commesso reati si sono posti al di fuori del cosiddetto consorzio civile. Spesso sono reati di sangue, spesso di ruberie. Ma a loro non è data possibilità di redenzione. La macchia è la loro condanna irreversibile, la sola scelta che gli presenta davanti. A tutti questi uomini, a tutte le sfumature del loro agire ci si deve accostare non con l’intento di giudicarli, ma solo con quello di comprenderli. E’ l’unico modo possibile per rispettare le loro sofferenze.

Qual è il tuo giudizio sullo Storico Incontro del 26 ottobre 1860?

Al di là dei giudizi della retorica patriottarda che celebra questo incontro come la consegna spontanea e disinteressata dell’Italia meridionale “liberata dall’oppressione borbonica” da parte “dell’Eroe dei due mondi al Re Galantuomo”, bisogna riconoscere che l’incontro altro non è che il suggello della vittoria finale dei moderati che espropriarono il ruolo rivoluzionario degli ideali del primo Risorgimento: Garibaldi ormai costituiva un pericolo, minacciava di di perseguire il suo principale obiettivo, liberare Roma dal potere temporale del papa. Era insomma l’espressione militare del Risorgimento rivoluzionario di Mazzini; Vittorio Emanuele era invece l’uomo d’ordine in mano alle forze moderate liberali che progettavano un nuovo assetto politico istituzionale dello stivale, in linea con gli interessi economici dei poteri forti europei che tanta parte ebbero nel processo unitario. Più che un incontro tra due eroi che combattevano per un unico ideale, Teano rappresenta per l’uno la presa di possesso definitiva del potere, per l’altro la resa ai poteri forti. Un aneddoto raccontato da vari storici rappresenta bene l’episodio: dopo il famoso “Sire, vi consegno l’Italia”, Vittorio Emanuele partecipò a un pranzo di gala offerto dalle autorità locali, riverito e osannato dalle masse. Garibaldi fu lasciato solo a sbocconcellare pane e formaggio nella stalla della locanda dove faceva riposare il suo cavallo. E da lì se ne andò, sconsolato, a Caprera, strumento inconsapevole di giochi politici più grandi di lui. Come spesso accade a chi può disporre solo delle proprie idee (giuste o sbagliate che siano) e dei propri sentimenti.

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Di Thomas Scalera

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