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Il futuro dell’Europa: la Germania ricorda la fine del Regno delle Due Sicilie… e trema

DiThomas Scalera

Mag 16, 2014

A 5 anni dallo scoppio della crisi economica, nel vecchio continente si fa fatica ad uscire dalla recessione e dalla crisi industriale. La chiave della ripresa appare abbastanza chiara ma le resistenze sono più che ferree. Per dare respiro alle finanze pubbliche, sappiamo che si dovrebbe alleggerire il peso del debito (pubblico) dei Paesi “sperperatori”, portando i tassi d’interesse a lungo termine al di sotto dei tassi di crescita dei singoli Paesi. Bisognerebbe poi ricapitalizzare le banche dei Paesi dell’area mediterranea, aiutandoli con investimenti pubblici e stimoli fiscali a ricucire un tessuto industriale con troppi buchi.

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Questi interventi, per ovvie ragioni, non possono essere finanziati dai Paesi in difficoltà, ma dovrebbero essere promossi in maniera collettiva dall’insieme dei Paesi della Zona euro. E’ qui che entra in gioco la tenace resistenza dei “virtuosi” Paesi nordeuropei, capeggiati dalla Germania dei miracoli di Angela Merkel. In concreto, la soluzione più ovvia sarebbe la nascita degli Eurobond ma, la Cancelliera è irremovibile: «Mai finché sarò viva». Probabilmente la Merkel è ben consapevole di quanto riportato alla luce dalla storica della finanza della Université Libre de Bruxelles, la professoressa Stéphanie Collet che, consultando gli archivi delle Borse di Parigi e Anversa ha scovato numerosi dati relativi ai debiti ed agli interessi sul debito degli Stati (italiani) preunitari, dando luogo ad un inedito parallelismo storico.

Nella storia dello stato moderno, quella dell’ “Unità d’Italia” è l’esperienza più vicina al periglioso percorso dell’unità europea e rappresenta un precedente utile a comprendere le dinamiche dei mercati finanziari di fronte all’unificazione del debito pubblico.

Dopo l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico italiano, avvenuta con la legge n.94 del 10 luglio 1861 (in cui confluirono i debiti degli Stati preunitari), non è azzardato affermare che si aprì un decennio di fuoco per la finanza pubblica italiana, che dovette far fronte ai costi di svariati eventi militari repressivi (rivolte meridionali) e di ulteriore conquista (presa del Veneto e di Roma). Tutto ciò si tradusse in una vertiginosa ascesa dei Debito Pubblico che passò nel giro di 10 anni dal 48% al 95% del PIL. La contestata classe dirigente dell’epoca, nel 1864 introdusse l’imposta sui redditi di ricchezza mobile e riordinò l’imposta fondiaria, nel 1868 istituì l’imposta sul macinato e l’imposta sui redditi provenienti dai titoli di Debito Pubblico e, contemporaneamente, vennero progressivamente inasprite tutte le aliquote impositive. La scarsa fiducia riposta dai mercati internazionali sull’Unità d’Italia fece sì che fino al 1876 i titoli degli Stati preunitari mantenessero l’indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come “Italy-Neapolitean”) e, pertanto, la professoressa Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.

Stupisce, ma poi non così tanto, lo spread tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l’Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che costituivano il 25% del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, ben 140 punti base in meno delle emissioni piemontesi (che rappresentavano il 44% del debito unitario dopo la conversione) e di quelle papali (29% del totale) e 160 punti in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che, tuttavia, erano solo il 2%).

L’Italy-Neapolitan Bond rappresentava per gli investitori ciò che oggi è il Bund tedesco: lo spread tra i rendimenti dei titoli italiani veniva misurato proprio su quello che veniva considerato lo strumento finanziario statale più affidabile. La solidità economica del Regno delle Due Sicilie, infatti, era internazionalmente riconosciuta: Napoli era di gran lunga la città più importante d’Italia e le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un’agricoltura fiorente, sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.

Lo Stato spendaccione e dal debito poco sostenibile era invece il Regno di Sardegna. I vari tentativi di modernizzazione voluti da Cavour e le ingenti spese militari avevano portato il debito pubblico piemontese a 1.292 milioni di lire nel 1861 (corrispondenti a circa 5.811 milioni di euro).

Questa pesante e onerosa situazione si ripercuoteva decisamente sul rendimento dei bond piemontesi, che era del 5,7% con il rapporto debito/PIL nel 1859 che aveva raggiunto il 73,8%.

L’esposizione finanziaria era soprattutto verso l’Inghilterra (sia verso la corona che nei confronti dei Rothschild), che aveva prestato il denaro necessario a Cavour per sostenere le imprese belliche della Guerra di Crimea e le riforme dello Stato necessarie per allineare la struttura dell’economia al modello inglese.

Sebbene il neonato Regno d’Italia avesse la facoltà di non riconoscere i debiti degli Stati annessi, i cui vincoli giuridici si erano estinti sul piano del diritto internazionale, con la Legge n° 174/1861, il governo decise di convertire in un unico, consolidato, debito nazionale gli impegni finanziari precedenti.

La ristrutturazione o il non riconoscimento del debito precedente avrebbe creato grossi problemi con il principale promotore (e creditore) del neonato Regno d’Italia, l’Inghilterra.

L’Italia, in questo modo, iniziò la sua attività contabile con un pesante onere di 3.131 milioni di lire, pari al 48% del PIL.

La naturale conseguenza fu che, dopo il 1861, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un “risk premium” comune a tutti i bond degli Stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond. Nel 1862, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in “Regno d’Italia” si attestarono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli “Italy – Neapolitean” significava 260 punti base in più, che diventarono 460 punti nel 1870, per poi cominciare a ripiegare solo dopo il 1871, quando l’annessione di Venezia e di Roma permisero il trasferimento della capitale nella città eterna, e convinse gli investitori che l’Unità era ormai irreversibile (ma raggiungendo gli stessi livelli di solidità soltanto decenni dopo). L’Italia non era più una mera “espressione geografica”, come l’aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo intricate operazioni diplomatiche, finanziamenti e sostegni silenti e l’inosservanza di svariati trattati internazionali, era ormai un fatto, ed era a direzione piemontese.

Se un operazione finanziariamente simile venisse riproposta a livello europeo, la Germania perderebbe il suo rating elevato e dovrebbe fare riferimento a tassi d’interesse sul debito sensibilmente maggiori, con tutto ciò che ne conseguirebbe. Nel lungo termine è più che probabile una stabilizzazione dei tassi e, poi, una progressiva diminuzione, a vantaggio dell’intero blocco europeo ma, quali stimoli hanno la Germania e gli altri Stati virtuosi per impegnarsi in tale operazione? Gli sforzi degli altri Stati, per ora si limitano ad una maggiore imposizione tributari
a o, al più, a tagli trasversali di spesa, ma non s’intravedono modifiche strutturali a quei sistemi statali che, finora, hanno garantito sprechi ed inefficienze. Considerato che quella italiana fu un’annessione soprattutto militare e quella europea dovrebbe essere un’integrazione consensuale, pur tenendo conto che i mercati dei capitali si muovono a ritmi certamente più elevati rispetto alla seconda metà dell’800, vanno comunque dati stimoli differenti rispetto a generiche promesse di conti sostenibili.

Per i Paesi mediterranei, dunque, la scommessa per il 2014 è quella di riuscire a convincere la Germania ad un passo decisamente impegnativo ma, i teutonici saranno disposti a rischiare la sorte del vecchio e glorioso Regno delle Due Sicilie?

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Di Thomas Scalera

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