• Mer. Apr 24th, 2024

Il suicidio di Donatella Hodo simbolo delle responsabilità dello Stato

Le strutture detentive non sono a misura umana

51 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno: doverosa una riflessione 

Donatella Hodo, di soli 27 anni, si è tolta la vita inalando gas nel carcere veronese di Montorio. Il suo suicidio è un’amara conferma di come siamo distanti millenni luce dalla umanità delle misure detentive e dalla gestione delle misure alternative.

Sono 51 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno (l’ultimo ieri mattina nel carcere di Monza) e 8 nei primi dieci giorni di agosto, una riflessione è doverosa e la politica pare sia troppo impegnata nei salotti elettorali anziché dare una sterzata alle decisioni da prendere sul pianeta carcere, ormai diventate salvavita. La maggior parte dei detenuti che hanno scelto di togliersi la vita  erano giovani d’età e reclusi per piccoli reati, per lo più per droga.

Certo è che la macchina carceraria ha necessità di ritrovare o, meglio, trovare per la prima volta, la sua forza e la sua priorità istituzionale. Innanzitutto la dimensione ri-educativa e formativa, di cui i ristretti hanno bisogno, attraverso progetti portati avanti da personale qualificato come quello sanitario, educativo, pedagogico, psicologico, sociale e formativo puntando anche alla modulazione di corsi professionali che consentano, una volta fuori, di dare una seria svolta alle loro vite. Dunque un lavoro (non solo su se stessi) e una rete di contatti che li possa portare a ricostruirsi altrove. Il tutto senza dimenticare un fatto essenziale: il malato psichiatrico, tossicodipendente, così come colui che è affetto da malattie degenerative, invalidanti va gestito in centri specializzati (anche qui doveroso un controllo capillare perché troppi sono i casi in cui in tali strutture si peggiora e la dignità dei malati viene letteralmente genuflessa), attraverso la scelta di pene alternative.

Nel caso specifico di Donatella, la  tossicodipendenza è giusto che si inizi a definirla per ciò che non è, appunto un reato e soprattutto si cominci a trattarla per ciò che è e, dunque, una malattia che è solo il sintomo di una sofferenza ben più grande, un grido di dolore e di inadeguatezza, una sofferenza che va curata non sanzionata. Se fossimo fattivamente un Paese civile si potrebbe ambire ad un sostegno psicologico, pedagogico, riabilitativo e, perché no, psicoanalitico.

Se Donatella, appena ventisettenne, solo con la droga riusciva a sopportare il male di vivere che la paralizzava e non le permetteva di aver fiducia nel domani e, una volta in carcere, viene circondata da una solitudine ancora più amara così fitta da indurla al suicidio, siamo alle prese con uno Stato che ha fallito. Così come fallisce ogni qualvolta i bambini, i giovani, gli anziani, tutte le fasce deboli urlano e, spesso non in silenzio, senza essere ascoltati! 

E duole dover ammettere anche  che il carcere non è per le donne né per i trans e va attivata una rimodulazione degli schemi carcerari anche in questo senso. Non lo è per loro né per nessun altro. Esiste il diritto alla dignità? Perché di dignità si deve parlare e discutere, non di promesse elettorali che nulla hanno a che vedere con i reali bisogni che da decenni sono messi a tacere o, ancor peggio, ignorati senza una concreta evoluzione. Perché di evoluzione si deve cominciare a parlare.

Oggi come oggi non si ricorre all’uso problematico di sostanze per esprimere una personale forma di protesta nei confronti della società bensì per rispondere al meglio alle richieste della società stessa. Dunque, va fatto un vero e proprio rastrellamento con annessa inseminazione di equilibri che parte da molto prima della reclusione. Va fatta negli istituti scolastici,  ricreativi, va fatta per strada, tra la gente, va fatta attraverso una sterzata soprattutto culturale che parte dalla assenza di pregiudizi nei riguardi delle famiglie cosiddette ‘problematiche’ così come in quelle ‘per bene’. Smettendo di definire le persone e iniziando a definire le occasioni che portano le persone a cadere in un baratro che il più delle volte è figlio di una necessità economica, prima ancora che sociale. 

Le generazioni hanno bisogno di ascolto, di presenza, di compiti di realtà, di opportunità, di scelte consapevoli con la certezza di un obiettivo figlio di un punto fermo e non di una parentesi mordi e fuggi lavorativa, assistenziale. Dunque siamo accerchiati da assuntori socialmente apparentemente “integrati” che hanno una idea distorta di castigo e premio associata a quella di redenzione, realizzazione, crescita, futuro.  Questo va fermato probabilmente anche legalizzando ciò che oggi, rappresentando una proibizione, favorisce il desiderio di errare pur di entrare in uno schema che a differenza della società, ti prende con sé senza alcuna distinzione di ceto sociale. 

Il carcere è attualmente il più grande motore di crescita della criminalità e dell’abbandono ma potrebbe e soprattutto dovrebbe essere (dunque finalmente diventare), il più grande circuito di (ri)-educazione e di realizzazione di se stessi, una sorta di compendio umano atto a riequilibrare e incoraggiare il reo alla scelta ed alla costruzione non di una vita nuova ma finalmente consapevole della sua vita e della misura delle proprie paure e ambizioni. 

USCITA A1 CAIANELLO VIA CERASELLE TUTTI I GIORNI DAL LUNEDI AL SABATO ORARIO CONTINUATO 08:00 20:30 DOMENICA 08.00 13.00
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Di Annamena Mastroianni

Docente. Media Educator. Formatrice.

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