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Le più grandi stragi di migranti: dal blocco navale del ’97 alla tragedia nelle acque di Pylos in Grecia

La rubrica “Stranieri in Italia e nel mondo” oggi torna a parlare di migranti ricordando i più grandi naufragi avvenuti nel Mediterraneo.

Alla vigilia della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione il governo riprende a parlare di blocco navale, attuato per la prima volta nel 1997 all’epoca del governo Prodi. A chiarire la situazione su questa misura così controversa, allo scopo di impedire l’esodo sulle coste italiane, è la Carta delle Nazioni Unite del 1945 che, salvo nei casi di legittima difesa, considera la misura come un atto di aggressione.

Ma ora ripercorriamo quelle che sono state le tragedie marittime più gravi del nostro secolo, prima fra tutte quella che vide l’attuazione del blocco navale: era il 28 Marzo 1997, di venerdì santo, quando la nave Sibilla della Marina Militare urtava la ex motovedetta militare albanese “Kater i Rades”. Il bilancio fu tragico: 57 morti e 24 dispersi. Erano presenti sull’imbarcazione molti bambini sotto i 16 anni. Soltanto 34 persone riuscirono a salvarsi.

Le tensioni politiche, le ribellioni e la povertà dopo la caduta del regime stalinista di Enver Hoxha in Albania avevano incoraggiato un fenomeno migratorio di ampia portata e il presidente del Consiglio Romano Prodi, che era a capo di una coalizione di centro-sinistra, corse ai ripari con l’emanazione di un decreto legge che ne regolava i respingimenti.

Subito dopo l’accordo dell’Italia con l’Albania, che legittimava l’ingresso di unità navali e aeromobili della Marina militare nelle acque albanesi per contenere gli sbarchi.

L’operazione scosse così tanto l’opinione pubblica, tra chi sosteneva le decisioni del governo e chi le contestava apertamente, tanto da portare Silvio Berlusconi, che era all’opposizione ma si era recato a Brindisi a dare conforto ai sopravvissuti, ad affermare; “Credo che l’Italia non possa accettare di dare al mondo l’immagine di chi butta a mare qualcuno che fugge da un paese vicino, temendo per la sua vita, cercando salvezza e scampo in un paese che ritiene amico. Il nostro dovere è quello di dare temporaneo accoglimento a chi si trova in queste condizioni”. E concluse dicendo: “Dobbiamo lavare questa macchia, che sarà pure venuta dalla sfortuna, ma che è venuta da una decisione che non si doveva prendere”.

Ma ancora più grave fu la tragedia che si consumò nelle vicinanze del porto di Lampedusa il 3 ottobre del 2013 dove un barcone proveniente dalla Libia, carico di migranti di origine etiope ed eritrea, si rovesciava causando la morte di 368 persone. Furono tratte in salvo 155 persone tra cui 6 donne e 2 bambini. A provocare il rovesciamento dell’imbarcazione fu una coperta alla quale un migrante aveva dato fuoco per segnalare la loro presenza; le fiamme coinvolsero in pochi attimi di tempo il ponte del barcone costringendo tantissimi migranti a gettarsi in mare. Durante la traversata erano presenti almeno 41 minorenni, di cui solo uno viaggiava accompagnato. La tragedia spinse il presidente del Consiglio Enrico Letta ad avviare l’operazione Mare nostrum: una missione militare e umanitaria che mirava a tutelare i migranti e contrastare gli sbarchi illegali. Fu definito come uno dei naufragi marittimi più gravi del XXI secolo avvenuti nel Mediterraneo, tanto da spingere il governo ad istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione in ricordo di chi “ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria”. I familiari delle vittime provenienti da diverse parti dell’Europa giunsero sull’isola ad identificare le salme, operazione difficile, visto l’avanzato stato di decomposizione in cui molte di esse versavano.

Altra tragedia fu quella legata al triste epilogo del peschereccio eritreo nel Canale di Sicilia del 18 aprile 2015 che, ribaltatosi, provocava 58 morti e un numero imprecisato di dispersi: si pensa tra i 700 e i 900 corpi, 28 i sopravvissuti. Aveva 14 anni il ragazzino che prima di lasciare il suo paese si era fatto cucire la pagella nella stoffa del giubbotto. Di lui non rimase molto quando fu ritrovato un anno dopo a 370 metri di profondità. Alcuni sopravvissuti avevano raccontato che il peschereccio carico di persone di nazionalità somala, eritrea e nigeriana era stracolmo di donne e bambini e che si erano resi necessari dieci viaggi in gommone per caricarlo. I due scafisti: il ventisettenne tunisino Mohammed Ali Malek e il siriano Mahmud Bikhit furono arrestati.

Il 4 ottobre avrà inizio il processo a carico dei presunti scafisti, due pakistani e due turchi, per il naufragio avvenuto il 26 febbraio di quest’anno, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, in Calabria, del caicco proveniente dalla Turchia. Vincenzo Luciano, un pescatore locale, fu il primo a prestare soccorso ma i corpi tirati fuori dal mare erano ormai cadaveri. Su 94 morti accertate, 35 erano bambini, 80 i sopravvissuti. Laura De Paoli, un medico esperto in soccorsi in mare che si trovava sulla motovedetta della Capitaneria di porto di Crotone racconta: “C’era mare forza 3 o 4, era difficile avvicinarci. La barca dei migranti era già a pezzi sulla spiaggia e noi avevamo intorno tanti cadaveri galleggianti”. È in corso l’inchiesta sulle presunte mancanze delle autorità italiane.

Era diretto in Italia il peschereccio partito da Tobruk, nella Libia orientale e naufragato nella notte dello scorso 13 giugno in acque greche, a sud-ovest della costa occidentale del Peloponneso. Secondo la commissaria dell’Unione Europea Ylva Johansson si tratta della tragedia più grave avvenuta nel Mediterraneo. Si stimano oltre 600 morti. Nella stiva si trovavano più di 100 bambini. Sono stati arrestati 9 presunti scafisti tutti di nazionalità egiziana. 

Alla luce di queste tragedie, facilmente dimenticate nei palazzi della politica e di cui si ha ricordo soltanto nei giorni dedicati alla loro commemorazione, ad oggi non è mai stato fatto nulla di concreto per l’emergenza migranti. Non è più possibile voltarsi dall’altra parte. Migliaia di persone ogni giorno fuggono da guerre, terrorismo, calamità naturali, regimi politici dittatoriali in cerca di un posto sicuro per i propri cari. Se davvero si ha volontà di combattere gli sbarchi illegali è ora di mettere in campo un’azione che coinvolga tutti gli stati europei. Servono programmi europei di cooperazione insieme a politiche di sviluppo dei paesi che affacciano sul Mediterraneo.

“Aiutiamoli a casa loro” è soltanto uno slogan, una mera propaganda politica.

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Di Claudia Cozzolino

Laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", area di specializzazione Vicino e Medioriente. Ricercatrice e traduttrice freelance.

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