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Torre del Greco. Il professore Cardone ricorda il 73° Anniversario dell’Apertura del Museo di Capodimonte

Festeggiata ieri l’importante ricorrenza

L’ente museale di Capodimonte risulta essere tra i più importanti

TORRE DEL GRECO/NAPOLI. Ieri 5 maggio si celebra il 73esimo anniversario dell’inaugurazione del Museo e delle Gallerie Nazionali di Capodimonte avvenuta il 5 maggio del 1957 con il taglio del nastro del Soprintendente Bruno Molajoli alla presenza del presidente della Repubblica GiovanniGronchi. Il museo ospitato nell’omonima reggia della collina di Capodimonte, voluta dal re Carlo III di Borbone, che salito al trono di Napoli nel 1734, decise di trasferirne l’intera collezione Farnese, ereditata dalla madre Elisabetta (ultima discendente della famiglia Farnese). Nel 1735, le raccolte sono imballate e spedite dal porto di Genova a Napoli e stipate in un primo momento al pianoterra e al piano nobile di Palazzo Reale. Fin dal suo arrivo a Napoli, il re decide di costruire una reggia, in parte adibita a residenza di caccia e in parte a luogo espositivo della collezione. A pochi mesi dalla posa della prima pietra del Palazzo Reale di Capodimonte, nel settembre 1738, sotto la direzione dell’ingegnere Giovanni Antonio Medrano (1703-1760), una commissione di esperti si occupa di definire all’interno della vasta costruzione progettata a pianta rettangolare, con tre grandi cortili interni, la disposizione degli ambienti. Le sale orientate a sud, verso il mare, sono destinate all’esposizione dei dipinti; quelle verso il giardino, più interne, alla biblioteca. Soltanto nel 1758 le opere farnesiane vengono esposte nei dodici grandi cameroni ultimati al Piano Nobile del palazzo, con una distinzione delle sale per singoli artisti di fama, intorno ai quali si raggruppano le relative scuole pittoriche. Tra i vari visitatori si possono annoverare il celebre Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) e Antonio Canova (1714-1794). Tuttavia nonostante il fascino che suscitava, il palazzo subisce dei continui ritardi per problemi di natura tecnica ed economica, soprattutto per l’affievolirsi dell’interesse del giovane sovrano, molto più attratto dai lavori, da poco avviati, per la costruzione della reggia di Caserta, progettata da Luigi Vanvitelli (1700-1773). Alla fine del settimo decennio del Settecento sono completate, con l’intervento dell’architetto Ferdinando Fuga (1699-1782) le stanze del secondo cortile verso nord, raccordate al corpo di fabbrica già esistente da due lunghi saloni destinati, nel corso dell’Ottocento, ad ambienti di rappresentanza. La quadreria farnesiana occupa anche questi nuovi spazi, fino a raggiungere l’estensione di ben ventiquattro sale di cui parlano i viaggiatori degli ultimi anni del secolo. A fine secolo la galleria risulta composta da circa milleottocento dipinti, finché nel 1799, le truppe francesi irrompono in città, saccheggiando ogni cosa che gli si para davanti e Ferdinando, figlio e successore di Carlo III di Borbone, temendo il peggio, aveva messo in salvo a Palermo già l’anno prima, diversi capolavori tra i più importanti della galleria. I commissari governativi francesi prelevarono trenta quadri destinati alla Repubblica, ma le truppe depredarono più di trecento dipinti che finiranno poi, in buona parte, sul mercato romano. Solo pochi potranno essere recuperati a partire dal 1800, grazie all’ attenta opera di ricognizione di Domenico Venuti, su incarico del re che nel frattempo era ritornato sul trono di Napoli. Tuttavia ha inizio un rapido e progressivo declino di Capodimonte nel corso della prima metà dell’Ottocento, poiché l’interesse dei Borbone per la reggia viene completamente a precipitare. Non tornano più le opere recuperate da Venuti nei depositi francesi a Roma, né quelle che, su esplicito incarico del sovrano, egli acquista sul mercato per rinfoltire le collezioni reali e colmarne le lacune. Alla fine si preferisce la nuova sede espositiva della galleria del palazzo di Francavilla, al centro della città. La breve stagione dei francesi sul trono napoletano, dal 1806, a seguito delle campagne napoleoniche, segna per molti aspetti una parentesi nuova per Capodimonte, poiché Giuseppe Bonaparte (1768-1844) e successivamente Gioacchino Murat (1767-1815) riprendono con vigore l’antico e ambizioso progetto borbonico di riunificare le collezioni in un unico museo al Palazzo degli Studi, ovvero al Museo Archeologico Nazionale, ampliandone l’estensione e trasferendone le opere all’interno delle sue sale; ma si dedicano con uguale determinazione alla reggia di Capodimonte (momentaneamente compiuta solo per due terzi circa) accentuandone l’aspetto residenziale.

Nel 1809, si progetta un ponte al di sopra del vallone della Sanità e una lunga strada nominata Corso Napoleone (attuale Corso Amedeo di Savoia) che congiunge la zona collinare al cuore della città. Il ritorno sul trono dei Borbone, a seguito della Restaurazione, accelera, inoltre il trasferimento delle collezioni al Palazzo degli Studi liberando così il Piano Nobile della reggia. Di fatto l’istituzione del Real Museo Borbonico al palazzo degli Studi scoraggia ogni ambizione museale per Capodimonte, affidandogli sempre più una funzione eminentemente abitativa e di rappresentanza. Ferdinando II (1810-1859), succeduto al trono nel 1830, riprende finalmente l’iniziativa di concludere una volta per tutte l’intero edificio, affidandone il progetto agli architetti Antonio Niccolini (1772- 1850) e Tommaso Giordano, ormai a quasi un secolo dalla posa della prima pietra. Un cambiamento sostanziale avverrà dopo il 1860, con l’Unità d’Italia e il passaggio alla dinastia dei Savoia, la reggia acquista una sua fruibilità museale, ma continuando a conservare la funzione di dimora. Sul finire del primo decennio, la dimora verrà assegnata alla famiglia del duca di Aosta (ramo cadetto di casa Savoia) che vi risiederà più o meno stabilmente fino al secondo dopoguerra, nonostante il passaggio dell’edificio dalla Corona al demanio nazionale, nel 1920. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il soprintendente alle Gallerie Bruno Molajoli (1905-1985) organizza le operazioni di trasferimento delle opere d’arte cittadine in depositi allestiti nel territorio della regione. È in questi anni del primo dopoguerra che vede la luce il nuovo, ambizioso progetto di una sede museale adeguata per dipinti e oggetti di epoca medievale e moderna, da collocare nel palazzo di Capodimonte. Progetto che inizierà nel 1952 e si concluderà nel 1957, ma nonostante desse l’idea di un museo finito, già alla metà degli anni Settanta, mal celava pecche e disfunzioni che finirono per aggravarsi col terremoto dell’Irpinia nel 1980 e portarono ad una chiusura parziale del museo, che riaprì interamente solo nel 1999. Oggi, all’interno del museo di Capodimonte è ospitata una raccolta che esprime a pieno l’eclettismo artistico cittadino, una collezione unica al mondo che copre oltre sette secoli di storia dell’arte. Da Masaccio (1401-1428) a Mantegna (1431- 1506), passando da de Ribera (1591-1652) e Caravaggio (1571-1610) fino ad Andy Warhol (1928-1987) e Alberto Burri (1915-1995). I capolavori degli artisti campani da Luca Giordano (1634- 1705) a Mimmo Paladino (1948) e quei manifesti Mele, figli del fermento operativo della Napoli della Belle Époque. Una raccolta unica nata intorno a quello che è considerato il gioiello della vastissima raccolta d’arte borbonica: La collezione Farnese. L’idea era di creare, come Molajoli stesso riferisce “un grande istituto in cui il pubblico possa trovare un filo conduttore, una scelta, una varietà di interessi culturali, uno stimolo estetico, senza tuttavia rimanere oppresso o intimidito. Esattamente 100 sale oggi costituiscono lo sviluppo complessivo di queste raccolte a disposizione del pubblico”.

La notizia dell’apertura di Capodimonte fu acclamata da tutti i giornali nazionali e internazionali e nell’articolo pubblicato su L’Europeodel 2 giugno 1957 Roberto Longhi, sintetizzando ad arte la portata dell’evento, scrive: “Sfiancati dalle mostre…ci si ristora volentieri alla mostra finalmente di un museo… Il principio della storia è quando Paolo III Farnese ha il buon gusto (o l’orgoglio) di posare per Tiziano, ritrattista cesareo; il mezzo, è quando tocca a Carlo di Borbone la buona sorte di incamerare i beni della madre Elisabetta Farnese e portarseli a Napoli; il fine è quando il Molaioli li riporta con ben altro animo a Capodimonte”. Una storia di “carreggiamenti” dunque che continuerà a Napoli al seguito dei vari sovrani. Purscelta come sede ufficiale della collezione sin dal 1757 occorrerà aspettare ben due secoli affinché idipinti trovino a Capodimonte la loro collocazione definitiva, basti pensare che ancora a metà del900 essi si trovavano nel Regio Museo degli Studi. E fu nel caos del dopoguerra che s’inserì l’azione di Molajoli che nel 1948 otteneva il decreto che riconosceva Capodimonte sede dellaGalleria Nazionale e che nel 1950 presentava apertamente il progetto di riorganizzazione del Palazzo in Museo, progetto finanziato e realizzato con i fondi della Cassa del Mezzogiorno. Lo stesso soprintendente alle Gallerie di Napoli nel volume Notizie su Capodimonte, esprime gratitudine a tutto il personale dipendente di ogni grado e mansione e ringrazia uno ad uno lo staff che ha lavorato, gomito a gomito, insieme con lui alla realizzazione di tale ambizioso progetto, particolarmente ringrazia il prof. Ferdinando Bologna per l’ordinamento della Galleria Nazionale, il dott. Raffaello Causaper l’ordinamento dell’800 e l’organizzazione dei restauri, il dott. Luigi Penta per l’ordinamento delle armi, la dott. Elena Romano per l’ordinamento delle porcellane, il dott. Oreste Ferrarin per l’ordinamento del medagliere e dei bronzi. A conclusione del testo scrive: “Infine, particolarissimo rilievo merita l’attività dell’Ufficio Tecnico sotto la direzione del prof. Ezio Bruno De Felice…che ha bene meritato della fiducia riposta nella sua sensibilità artistica, nell’esperienza tecnica, nel disinteresse e, si può dire, nell’umiltà, richieste da un’opera di così eccezionale mole, impegno e responsabilità, che ha potuto essere concepita, condotta durante oltre

cinque anni e felicemente conclusa, grazie soprattutto ad un superiore spirito di dedizione e di schietta e stretta, quotidiana collaborazione, il cui ricordo ci è gradito segnare a conclusione di queste pagine”. La maggior parte degli interventi realizzati per la grande riapertura post seconda guerra mondiale trovano la loro ragion d’essere nell’immagine precisa che per Molajoli doveva avere Capodimonte: immagine ben riassunta dallo slogan “tre musei in uno”usato dalla stampa dell’epoca per annunciare l’avvenimento. I lavori furono effettivamente avviati nel 1952 e si conclusero nel 1957 con l’inaugurazione il 5 maggio del Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte. A ripercorrere le tappe principali un valido testo di approfondimento dell’architetto Rosa Romano con foto e documenti d’epoca della Fondazione De Felice, dell’Archivio Carbone e dell’Archivio Fotografico della Campania, nonché il video inaugurale dell’Istituto Luce.

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Di Redazione V-news.it

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