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Ilicic, torna la depressione: l’emozionante lettera del giornalista

DiAndrea De Luca

Gen 24, 2022

Josip Ilicic ripiomba nella depressione. La lettera toccante del giornalista al calciatore dell’Atalanta

Josip Ilicic è tornato nell’incubo della depressione. Il calciatore dell’Atalanta è stato rincuorato da una bellissima lettera del giornalista e tifoso nerazzurro Gigi Riva (solo omonimo dell’ex bomber) che ha vissuto da vicino, come inviato, il dramma della guerra in Bosnia.

La lettera

“Caro Josip Ilicic, perdoni la confidenza, noi non ci conosciamo, io l’ho vista una sola volta a Zingonia mentre col suo passo ciondolante, le spalle un po’ arcuate in avanti quasi a protezione della sua intimità, andava verso il campo di allenamento e osservai, tra me e me, che quella sua nuca piatta era una caratteristica genetica che la identificava senz’altro come appartenente al popolo bosniaco che ho molto amato. In ogni popolo esistono tratti fisiognomici peculiari. Non bastasse, per ogni tifoso atalantino lei è diventato l’emblema di una persona fragile e geniale, da tenere per cara.

Da qui la confidenza. Ho letto del suo nuovo travaglio, del malessere interiore riemerso in un altro momento difficile della comunità a cui ora appartiene, la comunità bergamasca, alle prese con l’ondata di coronavirus più virulenta dopo la prima del 2020. Non voglio indagare oltre. Apprezzo la discrezione e la misura con cui la società la protegge, apprezzo il rispetto e la muta, generale solidarietà. Benché ci manchi, in campo, nessuno le chiede di essere campione. O meglio, sommessamente le viene chiesto di essere diversamente campione nella battaglia che sta combattendo contro i suoi fantasmi. Nel ripercorrere la sua storia mi viene spesso in mente la frase che una donna, una ex desaparecida argentina, violentata e torturata, ripeteva a coloro che volevano raccontasse cosa le era successo: «Di certe cose parlo solo con le mie piante». Questo non le impediva, tuttavia, di guardare al futuro, di avere il futuro nel suo immaginario, nel suo orizzonte possibile.

Lei è nato a Prijedor, nord della Bosnia, il 29 gennaio del 1988, fra poco compirà 34 anni. Perse il padre, croato, quando aveva pochi mesi, ucciso da un vicino serbo quando i tamburi di guerra erano ancora una lontana eco all’orizzonte. Sua madre decise di trasferirsi in Slovenia rifugio di tanti profughi ex jugoslavi. È immaginabile che il fantasma di Prijedor le sia rimasto inciso come una ferita che ancora sanguina e che i suoi successi sportivi non sono riusciti a suturare. Sono stato nella sua città natale quando il conflitto era ormai deflagrato. C’era un campo di concentramento nella fabbrica di ceramiche Keraterm dove erano stati reclusi dai serbi più di mille musulmani di Bosnia e croati di Bosnia. Si vociferava addirittura che nella fabbrica funzionasse un forno crematorio per bruciare i cadaveri anche se non sono mai state trovate le prove. Ebbi la sfrontatezza di chiederlo a Radovan Karadzic, il leader politico dei serbi, durante un’intervista. Rispose solo con uno sguardo di odio. A Keraterm era stato anche Fikret Alic, credo che il suo nome le dica qualcosa. È quel giovane denutrito, emaciato, ridotto allo stato larvale che finì sulla copertina di Time nel 1992, quando l’Europa scoprì che l’urlo di Primo Levi «mai più» era stato lanciato invano.

Alic sopravvisse ed era all’Aja quando Ratko Mladic, il generale serbo-bosniaco, fu condannato all’ergastolo per genocidio, esultava perché giustizia era stata fatta. L’inferno che sua madre le ha evitato fuggendo, caro Josip, l’ha probabilmente rincorsa. Noi non possiamo far altro che inchinarci davanti al suo dolore esistenziale, ringraziarla per le gioie. Si prenda il suo tempo, ne ha tutto il diritto. Noi l’aspettiamo non con l’egoismo del tifoso che la vorrebbe presto con la maglia nerazzurra ma con l’affetto di chi vorrebbe che rispuntasse sulle sue labbra un sorriso. Sarebbe il segno che non sempre vincono i cattivi se non saranno riusciti a piegare un voglia di vita. Anche questa sarebbe una forma di giustizia. E dipende da lei”.

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Di Andrea De Luca

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